15 ottobre 2008

Né di Eva né di Adamo



a cura di Manuela Perizzolo

Lei belga “informale ribelle”, lui giapponese “ricco tecnologico”. I binomi possono essere tanti: uomo-donna, sradicata-radicato, ribelle-tradizionale, informale-formale, veloce-lento, easy-squared, ecc….. In queste pagine il primo appuntamento, che abbiamo trovato irrestibilmente divertente.

di Amélie Nothomb
(Albin Michel, 2008)
(tratto dal capitolo 7, trad. Monica Capuani)

Sentivo che Rinri si aspettava un invito a casa mia. Era il minimo dell’educazione: io ero andata da lui tante volte.

Eppure mi opponevo strenuamente all’idea. Portare chicchessia a casa mia è sempre stata una prova terribile. Per definizione, per motivi che non so spiegarmi, casa mia non è un luogo presentabile. Da che ho ottenuto la mia indipendenza, un alloggio abitato da me assume subito l’aria di un ripostiglio occupato da rifugiati politici, pronti a sloggiare alla minime incursione della polizia.

I primi di marzo ricevetti una telefonata da Christine. Partiva per un mese per andare a trovare sua madre in Belgio e mi chiedeva per favore se potevo trasferirmi nel suo appartamento e innaffiare le piante in sua assenza. Abitava nell’alloggio-tipo al massimo dell’avanguardia di Tokyo, un appartamento favoloso in un edificio futuristico, con vista su altri palazzi del futuro.
…….
……e traslocai in quella base interplanetaria. Senza dubbio, non era casa mia. In ogni stanza un telecomando permetteva di programmare la musica, ma anche la temperatura e quello che succedeva nella stanza accanto. Sdraiata sul letto potevo cuocere i cibi nel microonde, avviare la lavatrice e chiudere le tapparelle del salone.
…..
In cucina il tostapane, intelligente, espelleva i toast quando sentiva che erano pronti. A quel punto partiva una suoneria che mi incantava. Programmavo concerti servendomi dei segnali degli elettrodomestici.
Avevo dato il numero di telefono di questa casa soltanto a una persona, che non tardò a chiamarmi.
-Com’è l’appartamento? – Chiese Rinri
- A lei forse sembrerà normale. Per me, è incredibile. Venga lunedì per la lezione, e vedrà.
- Lunedì. Ma oggi è venerdì. Lunedì è lontano. Posso venire stasera?
- A cena? Ma non so cucinare.
- Mi occupo di tutto io.
Non trovai alcun pretesto per rifiutare, tanto più che mi faceva piacere. Era la prima volta che il mio allievo si mostrava intraprendente. Senza dubbio l’appartamento di Christine c’entrava qualcosa. Un terreno neutro, questo sì che cambia le carte in tavola.

Alle sette vidi apparire il suo volto sullo schermo del citofono e gli aprii. Arrivò con una valigia nuova di zecca.
- Sta partendo?
- No, sono venuto a cucinare per lei.
Gli feci visitare la casa, che lo stupì meno di quanto avesse stupito me.
- E’ bella – disse. – Le piace la fonduta svizzera?
- Sì, perché?
- Meglio così. Ho portato il necessario.

Poco a poco avrei scoperto il culto che i giapponesi dedicano all’equipaggiamento destinato a ogni azione della vita: l’equipaggiamento per la montagna, l’equipaggiamento per il mare, l’equipaggiamento per il golf e, quella sera, l’equipaggiamento per la fonduta svizzera. A casa di Rinri, c’era un’apposita stanza ben sistemata dove valigie già pronte aspettavano queste diverse operazioni.

Davanti ai miei occhi affascinati, il giovanotto aprì la valigia deputata e vidi apparire, fissato in un ordine inalterabile, un fornello a propulsione intergalattica, un pentolino antiaderente, una bustina di formaggio in polistirolo espanso, una bottiglia di vino bianco antigelo e dei crostini di pane imputrescibile. Trasferì questi notevoli elementi sul tavolo di plexiglas.
- Comincio? – domandò.
- Sì, non vedo l’ora.
Versò il polistirolo e l’antigelo nel pentolino, accese il fornello che, curiosamente, non decollò verso il cielo e, mentre quelle sostanze messe insieme provocavano varie reazioni chimiche, tirò fuori dalla valigia piatti che si presumevano tirolesi, forchettone lunghe e bicchieri a calice “per il resto del vino”. Corsi a cercare della Coca-Cola in frigo, assicurando che stava benissimo con la fonduta svizzera….

- E’ pronto – annunciò.
Ci sedemmo coraggiosamente uno di fronte all’altro e mi arrischiai a intingere nella miscela un pezzo di pane imputrescibile infilzato sulla punta della forchettina. Lo tirai fuori e mi meravigliai per il fantastico numero di filamenti che si formarono all’istante.
- Sì, - disse fiero Rinri – sono venuti proprio dei bei fili.

Fili che, come tutti sanno, sono lo scopo autentico della fonduta svizzera. Misi in bocca l’oggetto e masticai: era assolutamente insapore. Compresi che i giapponesi adoravano mangiare la fonduta svizzera per il lato ludico della faccenda e ne avevano creata una che eliminava l’unico dettaglio increscioso di quel piatto tradizionale: il sapore.
- Eccellente – affermai, nascondendo la mia ilarità.
Rinri sentiva caldo e, per la prima volta, lo vidi senza la giacca di daino nero. Andai a cercare una bottiglia di tabasco, sostenendo che in Belgio la fonduta si mangia con il peperoncino. Immersi un pezzetto di pane nel polistirolo caldo, provocai una rete di mille fili, poggiai il cubo giallo sul mio piatto e lo innafiai di tabasco, perché avesse un qualche gusto. Il ragazzo osservava il mio armeggiare e giuro di avergli visto negli occhi questa constatazione: “I belgi sono gente strana”.
Il bue che dice cornuto all’asino.


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