Città diffusa: cultura dispersa?

di Stefano Ferello
(Parte II)
Allora, avete compreso cos’è una città diffusa?
Ebbene sì: in pratica è il territorio in cui viviamo noi padano-veneti, una disordinata realtà con pochi vantaggi e tanti svantaggi.
Come dicevo nella prima parte, mi soffermo sugli aspetti culturali.
Qualsiasi istituzione pubblica o privata che volesse programmare politiche culturali in questo territorio ormai trasformato in giungla mista di cemento e mura antiche, di campi e capannoni, deve affrontare il problema della perdita del “centro”.
La “centralità” non solo non è possibile nella città diffusa, ma non è nemmeno recuperabile e ormai non è neppure più desiderata.
Tra la città con il suo centro storico denso di istituzioni culturali ed il piccolo paese rurale che promuove la qualità dei suoi prodotti agricoli e del suo paesaggio anche attraverso il piccolo museo locale o il festival, si estende la zona grigia della non città e della non campagna, che da una parte è profondamente integrata nei consumi urbani e metropolitani, mentre dall’altra rappresenta un territorio quasi inafferrabile per le politiche culturali.
In pratica risulta difficilissimo agire culturalmente in questa “zona mista” ed è invece molto più a agevole promuovere cultura in centri-città già esistenti e ben definiti.
Strettamente legato a tale tematica, è il problema di dar “forma” ad una domanda culturale quando non ci sono centralità o “scatole architettoniche” ben definite, cioè quando non emerge immediatamente una tipologia architettonica od una precisa
forma urbana.
Detto in altre parole, il profilo attuale è quello di un territorio che è senza centro ma che purtroppo è anche “senza luoghi”.
Un esempio concreto chiarirà in modo “paradigmatico” il problema, assai diffuso, ma difficilmente riconoscibile.
In un quartiere fortemente periferico di un’area metropolitana è stata effettuata una ricerca per individuare le necessità di incontro e di socializzazione di giovani ed adolescenti: l’obiettivo era di progettare la costruzione e le attività di un centro di incontro.
La sorpresa emersa dai questionari fu che l’unica richiesta chiaramente espressa dai ragazzi consisteva nell’apertura di un negozio di calzature di una nota marca internazionale di scarpe sportive!
Infatti i ragazzi dovevano spostarsi dalla periferia al centro storico della città, dove in una delle vie più prestigiose era effettivamente localizzato il negozio.
Non c’è dubbio che il fenomeno abbia a che fare con i processi di globalizzazione e che la risposta ai questionari contenga un aspetto di provocazione più o meno consciamente espressa.
Tuttavia si perderebbe di vista il problema se ci si limitasse a constatare che le loro risposte non sono pertinenti, cioè che sono al di fuori della sfera di competenza delle politiche culturali.
Se invece si analizza il tutto da un altro punto di vista, cioè che i ragazzi hanno una diversa concezione dei luoghi della socializzazione, allora emerge come la risposta sia assolutamente pertinente.
In un territorio che non è né città né campagna, i ragazzi non riescono a identificare un luogo caratterizzato da precise dimensioni fisiche (cioè una scatola architettonica ben definita), ma solo qualcosa che ha a che fare con un immaginario, cioè un meta-luogo.
La concezione “classica” di centro d’incontro o di centro culturale prevede appunto un sistema di concentrazione, che può essere semplicemente una piazza oppure un edificio, cioè un luogo dove concentrare interessi comuni e quindi strutturato e organizzato per svolgere attività che favoriscano lo scambio, la comunicazione, la socializzazione.
Al contrario, il negozio di scarpe famose con il suo “logo globale” prevede uno stare in prossimità di una vetrina, di una “iridescenza” di immaginari connessi ad un modo di essere (o di pensare di essere!!!).
La condivisione degli immaginari rappresenta il luogo, la centralità radunata attorno ad un pretesto, quasi indipendentemente dallo spazio fisico e architettonico che ha intorno.
La centralità si produce per irraggiamento da una vetrina che opera come un reattore per gli immaginari dei ragazzi!
Il negozio produce una sorta di “cupola immaginaria” sotto il quale si definisce il luogo della comunicazione e della socializzazione.
L’assenza di luoghi si trasforma nella creazione di luoghi immaginari, cioè meta-luoghi.
Paradossalmente succede che un “non-luogo” come quel negozio si trasformi nel “meta-luogo” di cui si sente la mancanza.
Come dicevo è un problema assai diffuso, ma difficilmente riconoscibile proprio perché è talmente evidente….da non essere visto!
Alcuni esempi renderanno più chiaro quanto appena detto.
Pensate per un attimo, proprio nella nostra città diffusa veneta, quali “spazi fisici immaginari” hanno assunto sembianze assolutamente reali.
Pensate per esempio alle cupole, alle volte, alle gallerie dei centri commerciali o dei cineplex –multisala: cosa c’è di più immaginario e al tempo stesso reale di uno spazio come l’ipermercato o il mega centro commerciale?
E che dire di spazi dei vari Cinecity o Warner Village?
Luci scintillanti, negozi di moda, videogiochi, pop-corn e coca-cola e cartelloni di “fantastici film di massa” ovunque!
Il meccanismo è lo stesso del negozio, ma qui è più evidente: immaginario collettivo e “loghi globali” si fondono alla realtà in enormi “non-luoghi”.
Tutto ciò rende necessaria una riflessione su come dare risposta a domande di cultura, di socializzazione e di comunicazione che non automaticamente necessitano di luoghi fisici reali o speciali
Si pone la questione di un’antropologia dei “nuovi” luoghi o “metaluoghi” pubblici e degli immaginari ad essi riferibili.
Le indagini classiche sull’audience all’interno dei musei e dei teatri, restituiscono spesso un’immagine poco mobile e ben conosciuta dei consumatori culturali quindi appaiono decisamente limitate e superate.
Occorre mettere in campo uno sforzo per individuare i comportamenti culturali di gruppi sempre più estesi di popolazione.
Se le indagini sui consumi di cultura e sull’audience continueranno a partire prevalentemente dalle sedi istituzionali e dalla strutturazione attuale dell’offerta, corrono il rischio di rendere invisibile un altro mondo che sta invece emergendo con velocità.
Se le istituzioni e chiunque programma interventi culturali, non tengono conto che nella città diffusa esiste una richiesta culturale molto diversa da quella del centro città, non riuscirà a raggiungere queste nuove realtà.
Intanto, la richiesta culturale della città diffusa è “cultura dispersa” in luoghi/non-luoghi commercialmente ricchissimi ma culturalmente poverissimi.
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